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Saldature senza profondità: la scultura a due dimensioni.
da Rosalind Krauss, Passagges in Modern Scupture, 1981.
di Giacomo Belloni
Smith aveva cercato le origini del significato basandosi sull’effetto della disgiunzione. Il concetto di disgiunzione diventò un forte stimolo per gli scultori americani che vennero dopo di lui agli inizi degli anni ’60. (Krauss)
Nel 1950 David Smith realizza Tanktotem I. La novità dirompente è la bidimensionalità di una scultura che si libra quasi senza peso nell'aria, a dispetto di ciò che ci si sarebbe mai potuto aspettare da questo medium che, per eccellenza, è estensore nell'arte della terza dimensione. Dopo l'abbandono della profondità sulla tela, tipico degli artisti della scuola di New York, anche la scultura non avrebbe potuto fare differentemente.
Seguendo i criteri già utilizzati dai pittori dell'espressionismo astratto, David Smith vuole eliminare qualsiasi allusione alla prospettiva per mezzo di una visione rigorosamente frontale. Come per i dipinti dei suoi colleghi pittori della scuola di New York anche le sue opere sono di grande dimensione.
David Smith è alla ricerca di una forma esemplare, riproponibile, emblematica, come avevano già fatto Rothko e Gottlieb.
Tanktotem, oltre che emblema, prende le sue ragioni di fondo dalla cultura surrealista, con la quale Smith, così come la cultura americana degli anni '30 e '40, era venuto in contatto nel decennio precedente.
Già Pollock nel 45 aveva utilizzato il totem per le sue presunte potenzialità psicoanalitiche; Smith ne rimane affascinato dopo aver letto Totem e tabù, libro in cui Freud riporta come alcune tribù primitive consideravano il totem come un surrogato della divinità, trasposta nell'oggetto, a cui spesso non era nemmeno consentito rivolgere lo sguardo.
Nel 1950 Smith realizza Blackburn: Song of an Irish Blacksmith, altra opera dalla visone rigorosamente frontale che raffigura un torso umano. Blackburn è formato da elementi in acciaio che si appiattiscono in profondità, in un'unica visione sommativa a favore di un unico punto d'osservazione prestabilito. La percezione di Blackburn, se osservata da altre angolazioni, viene completamente stravolta perché rimangono ampie zone di vuoto, di aria, di assenza dalla materia - un'accozzaglia di forme metalliche ritagliate - che non ne consentono una sintesi esauriente. Gli altri punti d’osservazione sono [...] inaspettati [...] Le vedute laterali di Balckburn non sono prevedibili partendo dalla sola veduta frontale. (Krauss)
Smith si distacca dalla prevedibilità della scultura costruttivista e dalla centralità di un nocciolo tematico, qui non è possibile dedurre gli sviluppi delle parti non a favore del punto d'osservazione prescelto. Ogni visuale offre scenari differenti e mai ipotizzabili in precedenza, avvalorando la non appropriazione, ovvero quella sensazione di non riuscire a penetrarla mai completamente, di non riuscire a fare propria la scultura, esattamente come avveniva nel concetto di remissione visiva nei confronti del totem da parte delle tribù di cui parlava Freud nel suo libro Totem und Tabu.
V-B XXIII è un lavoro in acciaio di Smith del 1963 che mostra come l’artista, anche in tempi più recenti, abbia voluto mantenere la sua coerenza formale e concettuale. Ancora un apparato totemico - centrale e dominante - e ancora il tabù – inteso come quella cautela visiva che ne prevede la non violazione che si deve alla divinità di cui scriveva Freud.
Come nelle precedenti e più datate sculture – Head of a still life o Table Torso tutte e due del 1942 - il totem si mostra per mezzo di un torso-come-natura-morta (Krauss). È il caso anche dei Cubi, serie degli anni ’60 in acciaio brillante – anche qui per amplificare la distanza con lo spettatore; totem di cubi e forme geometriche razionali come i cannoni ed all’artiglieria, spesso umanizzati con ruote o piedi, quasi a voler richiamare una maschilità aggressiva, per sottolineare la sua natura violenta di essere alla ricerca di un potere che può raggiungere solo per mezzo del sopruso.
Uno dei meriti di David Smith è stato senza dubbio quello di aver superato la tematica surrealista della trasposizione del desiderio inconscio e invisibile nell’opera d’arte. Questo passo avanti, questa messa tra parentesi del pensiero di Breton non era, ad esempio, stato fatto da altri artisti a lui contemporanei come Herbert Ferber (Surrational Zeus II) che prosegue invece sulle orme di Donna sgozzata di Giacometti. Il lavoro di Ferber ruota intorno ad una struttura a gabbia composta da aste metalliche che contiene un segno imprigionato. È il caso di Calligraph in Cage with Cluster del 1962 in cui firme calligrafiche sono rinchiuse in una semplice armatura in ferro. O ancora The Clock di Seymour Lipton del 1952 in cui alcuni elementi metallici centrali sono contenuti in un baccello – sempre metallico -, alla ricerca della solita struttura totemica.
Nel 1959 Mark Di Suvero crea Lost Eurydice, un lavoro in ferro e legno di imponenti dimensioni che segue l’estetica di Smith quando scompone, apre, separa la sua scultura in una disgiunzione formale che non rimanda ad alcun nocciolo ma che presenta in tutta la sua forza il gesto astratto dell’espressionismo. Lo stesso fa David von Schlegell con Sentinel del 1963, una scultura ad altezza uomo in acciaio e legno.
Altri scultori sono invece orientati ad evidenziare le potenzialità della superficie nelle sue mutazioni che ne dissimulano il centro. È il caso di Beverly Pepper con Venezia Blu del 1969, una scultura geometrica in acciaio levigato, specchiante, lucida e riflettente che, anche qui, tende ad allontanare lo spettatore da qualsiasi possibilità di appropriazione visiva, quasi nascondendola o addirittura facendola scomparire tra i riflessi del mondo reale, lasciando in evidenza solamente i bordi blu con l’intento di disegnare i confini delle sue geometrie.
Ancora: John Chamberlain con Velvet White del 1962, una scultura alta 2 metri (l’altezza è circa la stessa per tutte le opere del periodo, a dimensione uomo) costituita da lamiere in acciaio accartocciate appositamente a nasconderne qualsiasi nucleo generatore, ogni centro dal quale far partire una superficie consequenziale. Nei suoi lavori di Chamberlain non permette alcuna analisi, esattamente come per quelli di Smith. Nel suo caso però quella pienezza che non corrisponde a nessuna armatura interna, consente allo spettatore di concentrarsi sulle superfici ammalianti, esattamente come prometteva l'estetica inglese ed americana dei primi degli anni '60, così come faceva Philip King (Through, 1966), aprendo di fatto la stagione minimalista che si sarebbe materializzata da lì a poco.
È lo stesso David Smith che, a partire dal 1959, influenzò addirittura l'inglese Antony Caro. Già assistente di Henry Moore, Caro crea immagini frontali ed estremamente materiali attraverso la saldatura - l'imbullonatura - di semplici elementi geometrici bidimensionali (Twenty-four hours, 1960). In One early morning:
...la grande piastra verticale che si posa su due "gambe" a una delle estremità dell'opera, come una vela spiegata; la lastra soprelevata a forma d'antenna che intreccia il sostegno verticale all'altra estremità della scultura; i due tubi sottili e contorti sovrastano il "piano del tavolo" a metà tra le due estremità, con un angolo di circa quarantacinque gradi. (Krauss)
Con quest'opera scultorea Caro mette in campo la verticalità pittorica, dove tutto si comprime e si riduce su un piano a due dimensioni, un quadro insomma. La scultura è rossa in ogni suo elemento, quasi per lasciar intenzionalmente intendere che tutti gli elementi sono parte di un medesimo intero, per circoscrivere il suo lavoro in un unico colore caratterizzante.
Sempre di Antony Caro sono Red Splash e Carriage dove due piani reticolati rettangolari sono collegati da un ferro leggermente piegato, una linea sottile, quasi disegnata.
L'esigenza di Caro di bidimensionalizzare la scultura diviene sempre più frequente con i lavori del 1967, quando inizia a produrre le sculture da tavolo. Il bordo del tavolo, dalle quali le sculture sporgono e sulle quali poggiano, serve come rigido punto di ancoraggio per la visione frontale e costringe lo spettatore ad una posizione anteriore. Se ci si posiziona lateralmente si vede qualcosa di diverso che porta con sé lo schema costruttivo e svela la materialità dell'opera; con il piano del tavolo, con il bordo la si può contemplare da un'unica angolazione, quella appunto costretta dal piano del tavolo.
Anche Philip King si accosta lentamente alla bidimensionalità di Smith (e quindi di Caro), abbandonando nel tempo i volumi di Through a favore delle pittorialità di Slant.
La stessa pittorialità diviene tipica delle opere di Tim Scott (Quantic of Sakkara, 1965) anche se qui però le relazioni tra le parti cancellano ogni gerarchia perché lo spettatore che si perde in visioni sempre differenti perché i rapporti e le proporzioni vengono persi e confusi, anche a causa della monumentalità dell'opera. Questa ha un perimetro percorribile, diventa difficile impadronirsene tutto in una volta, anche perché ogni prospettiva la modifica completamente. La dimensione diventa qui decisiva - cosa non così manifesta prima degli anni '60; dopo i readymade è necessario ora chiarire cosa non è solamente oggetto, ma opera dell'artista.
Questo è il punto di partenza della Minimal Art quando gli artisti iniziano a proporre oggetti nella loro naturalezza, senza modifiche, nella loro partecipazione alla funzionalità del mondo. Nessuna delocalizzazione che ne cambia la funzione; nessuna traslazione tra la realtà al contesto dell'arte. Qui gli oggetti diventano arte nella loro evidenza, anche funzionale, senza vi si debba cercare alcun successivo significato: essi semplicemente sono nel tempo di chi li usa [...] partecipano al flusso ininterrotto della durata (Krauss).
Per distogliere gli oggetti dal contesto dell'arte basta quindi inserirli nel tempo reale, nel presente continuo dello spazio percorribile, basta toglierli dal loro piedistallo isolante.
Gli scultori come Caro hanno esteso la terza dimensione nella bidimensionalità, proprio per consentire un'immediatezza e per non rischiare la confusione di uno sconfinamento.
io@giacomobelloni.com
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per approfondimenti si consiglia la lettura del libro:
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